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CBD legale: cosa dice la Legge italiana

Pubblicato Da: Marco / Pubblicato Il: 09 lug, 2019

La vendita di olio di cannabis o di cannabis light o depotenziata è regolata dalla legge 242 del 2016, in vigore dal 14 gennaio 2017 e che prevede la possibilità di commercializzare prodotti a base di canapa.

Molte profonde incertezze attualmente coinvolgono il CBD legale in Italia: questo a seguito della lacunosa sentenza emessa il 30 Maggio 2019 da parte della Corte di Cassazione e che ha visto “rivoluzionare”, secondo l’accezione meno positiva del termine, quanto invece stabilito dalla Legge 242.

Quest’ultima, a partire da Dicembre 2016, aveva al contrario dato il via libera alla produzione e commercializzazione di cannabis light e derivati anche all’interno del Paese, sempre secondo specifiche disposizioni.

Da allora sono stati oltre 15mila le iniziative imprenditoriali che hanno costituito il settore dedicato alla coltivazione di canapa e alla relativa libera commercializzazione, per un giro d’affari stimato intorno ai 150 milioni di euro l’anno: tutte realtà più o meno significative che ad oggi rischiano di essere nuovamente proiettate nel vortice del “proibizionismo”, rischiando letteralmente la chiusura, proprio a causa di un’incertezza legislativa lacunosa e fuorviante. Vediamo dunque di fare chiarezza cercando di comprendere cosa è cambiato dal 2016 ad oggi e quali sono i possibili scenari dedicati al CDB legale in Italia in base a quanto espresso dalla Cassazione.

Cos’ha detto la Corte di Cassazione?

L’attesissima sentenza emessa dalla Corte di Cassazione lo scorso 30 Maggio circa la cannabis light e il CBD fino ad allora legale, ha stabilito che in Italia non sarebbe più concessa la vendita o la cessione a qualunque titolo di tutti i prodotti “derivati dalla coltivazione della cannabis”, quali l’olio al CBD, così come foglie, le infiorescenze e la resina, questo secondo la massima provvisoria emessa che recita testualmente -“Integrano il reato previsto dal Testo unico sulle droghe (articolo 73, commi 1 e 4, dpr 309/1990) le condotte di cessione, di vendita, e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa light, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.

Ecco dunque che un’espressione così lapidaria, e se vogliamo distruttiva, va a impattare negativamente su un settore in continua crescita, quello legato alla cannabis light appunto, i cui benefici negli ultimi decenni sono stati ampiamente avvalorati e supportati da studi scientifici, ricerche mediche e indagini statistiche, che ora rischiano di risultare non solo vane, ma lesive nei confronti di chi in questi anni si è battuto per costruire la propria realtà imprenditoriale, dimostrando non poca apertura mentale in un paese come il nostro che di certo non è tra i candidati per l’Oscar alla migliore mentalità moderna.

Per cercare di chiarire lo status attuale che coinvolge la cannabis legale, è necessario tuttavia fare qualche passo indietro poiché, nonostante l’attuale sentenza non abbia fatto altro che alimentare dubbi e incertezze, anche la Legge 242 negli ultimi 3 anni ha posto alcuni presupposti a dir poco paradossali: già allora due differenti sezioni della Corte di Cassazione si erano pronunciate in maniera diametralmente opposta, invocando l’intervento delle sezioni penali unite al fine di ovviare le molteplici contraddizioni interne.

Situazione che ad oggi si ripropone ancora una volta estremamente contraddittoria poiché l’attuale sentenza pur stabilendo la legalità di tutti quei prodotti a base di CBD di fatto “privi di efficacia drogante”, considera reato la vendita di prodotti canapa o qualunque altro “prodotto derivato dalla coltivazione della cannabis”.

Quanto stabilito dalla stessa legge del 2016, esibisce in ogni caso due criticità che non possono certo passare inosservate: il limite legato alla concentrazione di THC, principio attivo che conferisce il cosiddetto effetto stupefacente e parte integrante della cannabis legale, così come relativi derivati commercializzabili era stato fissato a 0,2%: tale norma prevedeva comunque una tolleranza fino allo 0,6%,al di sotto della quale non avrebbe determinato alcuna responsabilità penale a carico del venditore.

Secondo quanto stabilito il 30 Maggio dalla Cassazione, tali parametri quantitativi si applicherebbero unicamente alle coltivazioni, escludendo i prodotti derivati, entrambi presupposti che lasciano spazio a questioni di non poco rilievo: come stabilire se un prodotto al dettaglio è legale o meno?

Chi e in base a quale criterio è in grado di definire se sussiste o meno la cosiddetta efficacia drogante? È auspicabile che si debba ricorrere sistematicamente alla pronuncia di un tribunale per poter stabilire se un prodotto possa essere o meno commercializzato?

La speranza, secondo Federcanapa, che menziona quelli che sono i parametri della tossicologia forense, la soluzione ideale sarebbe data dal fissare il limite di THC a 0,5%, proposta ad oggi purtroppo ancora intangibile.

Poco importa dunque se tale sentenza sia frutto di questioni politiche, a discapito delle centinaia di testimonianze in favore del consumo di marijuana avvalorate negli ultimi 10 anni dalla comunità scientifica. Per l’ennesima volta l’Italia è vittima di un sistema giudiziario contorto e lacunoso dove la chiave di lettura di una qualsivoglia norma, lascia spazio inevitabilmente alle più svariate e fantasiose interpretazioni.

È comunque innegabile come il 30 Maggio abbia posto il Paese di fronte alla sentenza più antiscientifica che potesse essere pronunciata, sia per l’inutilità del divieto in sé, che assume più il sapore di un revival del proibizionismo che non di una decisione volta a promuovere la salute pubblica, che ovviamente per la poca chiarezza legata al concetto di “effetto drogante” che suona più come un inutile paradosso: non ha senso porre il veto su prodotti quali oli, creme o alimenti che presentano bassi livelli di THC e una minima percentuale di CBD, quando di fatto il consumo di tabacchi e alcoolici risulta invece perfettamente legale e tollerato.

Se si parla infatti di rischi per la salute individuale, sicurezza al volante, prevenzione del cancro, solo per citare alcuni esempi, porre due pesi e due misure non regge il confronto, specie in virtù del fatto che si sta comunque disquisendo su prodotti destinati a un uso ricreativo con percentuali di principi attivi ad azione psicotropa decisamente marginali e sottovalutabili.

Una cosa è comunque certa: stroncare il mercato legato al CBD legale in Italia rappresenta un autogol economico non indifferente nonché un abnorme scivolone giudiziario, in primis perché in questo modo, ogni tentativo di ridurre sensibilmente l’intervento delle mafie così come dei traffici illeciti risulta stroncato sul nascere, non meno importante il concretizzarsi del rischio di “segare le gambe” a un settore in crescita per il quale in molti hanno deciso di investire.

Governo e magistratura si prendono una grande responsabilità: quella di modificare i regolamenti in corso d’opera sulla scorta di operazioni che, ancora una volta, cercano il consenso facile e scimmiottano una sorta di campagna elettorale permanente sulla pelle di centinaia di imprenditori e dei consumatori.

La cannabis è legale in Italia?

La vendita di olio di cannabis o di cannabis light o depotenziata è regolata dalla legge 242 del 2016, in vigore dal 14 gennaio 2017 e che prevede la possibilità di commercializzare prodotti a base di canapa solo se presentano un ridotto contenuto di tetracannabidiolo o THC, il principio attivo responsabile del caratteristico effetto psicotropo tipico della marijuana allo 0,2% o comunque sempre inferiore al limite di tolleranza imposto allo 0,6%.

Sebbene il settore dedicato alla cannabis light in Italia, abbia fatto registrare un fatturato superiore ai 40 milioni di euro solo nel 2018 grazie alla presenza di oltre 778 grow shop così come distributori automatici in grado di rendere fruibili non solo le bustine di marijuana light, ma anche tisane, alimenti, cosmetici, indumenti e bevande energetiche, tecnicamente l’utilizzo personale e ricreativo di cannabis non risulterebbe comunque consentito, secondo le leggi precedenti in materia sanitaria: questo poiché la suddetta norma si limiterebbe a incentivare e a promuovere solo l’impiego e il consumo finale di semilavorati derivati dalla canapa, così come la produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi quali le biomasse, ma non a utilizzare la cannabis in purezza, vaporizzata o assunta sotto forma di “spinello”.

Discorso differente invece per la cannabis per uso terapeutico, legale in Italia ormai dal 2006. Prodotta dal 2016 dallo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, in collaborazione col Ministero della Salute e il Ministero della Difesa, vede la distribuzione, destinata unicamente alle farmacie e dedicata a preparazioni che richiedono l’impiego di cannabis FM-2, con concentrazione di THC di circa 5% - 8% e di CBD al 7,5% - 12%, fruibili solo mediante presentazione di prescrizione medica non ripetibile.

Dal Luglio 2018 si è resa disponibile anche la varietà Cannabis FM-1 costituita da THC al 13,0-20,0% e CDB <1%.

La cannabis a uso medico in Italia è prevista nel trattamento del dolore cronico e associato a patologie quali la sclerosi multipla, di eventuali lesioni a carico del midollo spinale, degli effetti collaterali provocati da chemioterapia, radioterapia e terapie per l’HIV, e ancora come stimolante dell'appetito nel trattamento dei disturbi alimentari, degli effetti ipotensivi nel glaucoma e per agevolare la riduzione dei movimenti involontari del corpo tipici della sindrome di Tourette.

La legge è comunque chiara anche per i coltivatori, che hanno l’obbligo di mantenere analogamente al di sotto della soglia consentita dello 0,2%, il contenuto complessivo di THC dell’intera coltivazione con un margine massimo di tolleranza dello 0,6%. Qualora durante i controlli effettuati dalle Forze dell’Ordine la concentrazione di THC superasse lo 0,6%, automaticamente è previsto un procedimento penale unitamente alla distruzione dell’intera coltivazione.

Quanto THC e CBD deve avere la cannabis per poter essere considerata legale in Italia?

Il CBD in Italia è considerato legale poiché la regolamentazione imposta dalla Legge, coinvolge essenzialmente la concentrazione del THC, che di fatto deve essere inferiore a allo 0,2% con un’oscillazione massima fino allo 0,6%. Tutte le varianti genetiche della canapa sativa da si ricava la cannabis light sono state ottenute mediante metodi agronomici innovativi che hanno così dato origine a varietà depotenziate dal punto di vista psicotropo tanto da non poter essere considerate stupefacenti.

Tuttavia la presenza di cannabidiolo o CDB risulta irrilevante, poiché trattandosi di un principio attivo che non ha di per sé alcuna azione psicoattiva può essere assunto legalmente sia attraverso la marijuana che mediante l’utilizzo di qualsivoglia derivati della cannabis.

Come funziona l’erba legale?

Ampio è divenuto negli ultimi anni il consumo di CBD legale in Italia, questo poiché tale principio attivo offre i molteplici benefici medici tipici della cannabis, senza tuttavia presentare i tipici effetti collaterali dati dall’azione psicoattiva tipica invece del THC. Utile nel trattamento di patologie dolorose e spesso invalidanti, offre infatti un’azione rilassante e anti-ansia, limita lo stress e viene ampiamente utilizzato anche in soggetti affetti da disturbi alimentari per stimolare l’appetito, così come anti infiammatorio e antiossidante. Insomma, preparati quali ad esempio l’olio al CBD hanno contribuito a migliorare senza dubbio la qualità della vita di molti.

In questo modo il CBD è divenuto a poco a poco protagonista di un numero infinito di prodotti, dalle bibite alle birre, dalle gomme da masticare alle tisane, fino ad arrivare agli alimenti così come alla cannabis legale, depotenziata del THC e quindi di libera vendita, a discapito dell’ormai demonizzato tetracannabidiolo.

Si pone dunque un’ulteriore incongruenza circa la sentenza della Corte di Cassazione che non menziona in alcun modo la cannabis ad alto contenuto di CBD, ad oggi la più attraente alternativa farmacologica e tranquillamente utilizzabile anche a scopo ricreativo proprio perché non può essere classificata come sostanza stupefacente né tantomeno esclusa in termini di “efficacia drogante”.

L’olio di CBD e altri derivati sono legali?

Quali sono dunque i derivati della cannabis light considerati legali e quindi non soggetti agli effetti della sentenza del 30 Maggio 2019? Senza dubbio è possibile commercializzare, acquistare e assumere tutti i prodotti a base di cannabis ad alta concentrazione di CDB, che non provocano cioè alcuna azione psicoattiva, e che rispettano la soglia di tolleranza indicata per legge circa la concentrazione di THC.

Cannabis light e infiorescenze che prediligano la concentrazione di CBD così come olio al CDB, alimenti a base di cannabis, cosmetici a base di canapa sativa sono consentiti. Diversamente tutti i prodotti che presentino concentrazioni non conformi di THC sono tuttora sottoposte al rischio di sospensione e sequestro, in funzione dell’ormai nota quanto opinabile efficacia drogante.

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Pubblicato Da: Marco
Pubblicato Il: 09 lug, 2019

“La mia libertà finisce dove comincia la vostra.” (M. L. King)Informatico di professione, antiproibizionista per passione.

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